"Histoire d'Eaux" Corto di Bernardo Bertolucci girato a Sonnino e Fossanova
di Diego Altobelli



Una piccola storia vera che riguarda me e il Maestro, e che conosce solo qualche vecchio amico di Sonnino (la storia, dico, non il Maestro che, in effetti, non ho conosciuto nemmeno io) e che si intitola appunto:
"IO E IL MAESTRO BERTOLUCCI"
È una fredda mattina d'inverno del 2001 e sono a casa a preparare un esame quando scopro che Bertolucci sta girando un film nella collina dietro Sonnino. Pura fantascienza. Bertolucci il Maestro. Bertolucci della Commare Secca. Del Conformista. Di Ultimo tango a Parigi e Io ballo da sola. Porcamiseria. Bertolucci uno dei miti della mia adolescenza cinefila notturna a base di merendine e Fuoriorario. Bertolucci della doppia vhs di Novecento smagnetizzata per le troppe visioni avanti e indietro, avanti e indietro. Non potevo crederci.
Indosso un orribile cappello di lana ed esco così come sono, in tuta e scarpe da ginnastica. Corro verso casa di G., lo tiro letteralmente giù dal letto e lo convinco ad accompagnarmi dietro le colline ché G., le colline, le conosce anche meglio di me. Così mette un cappello di lana anche lui e partiamo con la opel di mio padre. È una bella e fredda mattinata di sole e in 5 minuti siamo sulla via volosca, la nostra via dei volsci come ripeteva un altro maestro, il maestro Marino bonanima, che sprofonda tra gli ulivi e le sterpaglie in un panorama mozzafiato da cui si vede San Felice, la pianura pontina, il mare e quando si è fortunati anche qualche isola in lontananza. Tutto ciò di cui ha bisogno l'immaginazione di un adolescente per sentirsi libera insomma. Le serate che abbiamo passato da queste parti non si contano e non mi sembra vero che Bertolucci abbia deciso di girare proprio qui un pezzo di un suo film.
Io avevo da poco realizzato un corto e un piccolo documentario con un amico e il mio piano era semplice: avrei conosciuto il Maestro e gliel’avrei detto. Cosa? Dei corti. E che mi sarebbe tanto piaciuto continuare a scriverle le storie, semplice no? Vediamo delle persone indiane in lontananza che camminano svelte in mezzo agli ulivi. Spengo la macchina. Ci avviciniamo in silenzio. Una ha una valigia, altre hanno dei turbanti. Camminano, no fuggono. Boh.
Un tipo alto e biondo col megafono si avvicina con delicatezza alla sedia dove è seduto proprio lui, il Maestro. Da dove siamo noi vediamo in realtà solo il grande cappello, ma è lui, lo so. L’assistente sussurra qualcosa a bassa voce, fa ripetere la scena. Ci nascondiamo dietro un albero e osserviamo tutto in religioso silenzio.
“Stoop!”. La troupe smonta tutto, carica gli attrezzi e scende giù a valle.
Li seguiamo e parcheggiamo in un appezzamento di terra vicino la stazione di Fossanova. Un paio di bufale sono attaccate placide a un albero, accanto un signore indiano ha un flauto in mano. Fa meno freddo e l'atmosfera è più distesa mentre tutti mangiano. Forse è questo il momento giusto. Qualcuno passa e ci offre il pranzo. Rifiutiamo ché da noi all'inizio si rifiuta sempre, per educazione. Poi se insisti ci sediamo e mangiamo tutto. Ma questi non insistono e finisce lì.
Penso di essere lo stesso molto fortunato: ho fatto un paio di corti che avranno visto venti persone e vicino casa Bertolucci gira un suo film. Chissà di che parla. Chissà come si chiama. Ancora non mi capacito del fatto che sto per presentarmi a uno dei più grandi registi del mondo. Ho un momento di esitazione. Chiedo a G. come sarebbe più giusto chiamarlo. Bernardo? Maestro? Non vorrei dargli l’idea di essere il solito fan rompiballe. Sono lì per dirgli quanto sia stato importante per me aver visto i suoi film. Per dirgli anche che ho fatto un paio di corti, certo, e che se volesse vederli sarei corso a casa e avrei duplicato subito le vhs perché chiaramente mica ce li avevo dietro, che stupido. Signor Bertolucci? Signor Bernardo? Dottor Bertolucci? Lui, il Maestro, è sempre seduto di schiena. Praticamente percepiamo la sua presenza solo dal suo enorme cappello e di fatto non lo vediamo mai in faccia perché è lontano ma fa niente – penso – perché tanto fra poco vado lì, mi presento, gli stringo la mano e per il resto della vita mi ricorderò e racconterò questo momento. Tolgo il cappello e penso a quanto sono stato cretino a uscire di casa in tuta e con le scarpe da ginnastica, che si sono pure sporcate di terra, mannaggia. L’assistente col megafono mi fa segno. è arrivato il momento. Dannazione, che figura con queste scarpe. MI faccio avanti sorridendo. L’uomo mi ringrazia e mi dice che possiamo spostare le vacche.
Il sorriso svanisce e i muscoli si pietrificano uno a uno mentre sento G. dietro che inizia a ridere. Provo a spiegare il terribile equivoco ma è troppo tardi, il tipo urla che quello è un set e che non siamo autorizzati e che dobbiamo andare via im-me-dia-ta-men-te. L’anno dopo lo vidi quel film, era un cortometraggio dal titolo “Histoire d'Eaux”. Era parte di un film collettivo, "Ten Minutes Older: The Cello" in cui c’era anche un corto di Jean-Luc Godard, sempre sia lodato anche lui.
Il corto di Bertolucci raccontava di questo giovane arrivato clandestinamente in Italia che a un certo punto decide di andare a cercare dell’acqua a un vecchio seduto sotto un albero con un flauto. Mentre cammina incontra una ragazza che prende a calci un motorino per farlo ripartire, l’aiuta, fanno amicizia e per quanto non si capiscano affatto, si innamorano e il film ci mostra in pochi minuti tutta la loro vita felice finché – colpo di scena – un incidente desta il giovane che sente nuovamente il flauto del vecchio. è passata un’intera vita ma il vecchio è ancora lì, vicino alle vacche, ad aspettare che il giovane gli porti l’acqua. Il giovane è pentito, si scusa, il vecchio sembra perdonarlo.
Quella sera al bar, invece, G. ancora rideva nel raccontare tutto.